sabato 23 dicembre 2006

LETTERA APERTA A CARLA WELBY

Signora Carla,

mi ha causato grande sofferenza vedere le dolorose immagini di suo fratello nei quasi novanta giorni che hanno separato la sua morte dalla lettera che egli ha scritto al Presidente della Repubblica. Non le nascondo che ho spesso sperato, in cuor mio, che la misericordia divina lo liberasse da quel corpo che, innegabilmente, si era per lui trasformato in una dolorosa prigione.
Anche se ritengo incivile e deprecabile, oltre che passibile di essere penalmente sanzionato, il fatto che si possa aver posto fine alla vita di suo fratello, con o senza il suo consenso, spero e prego perché possa trovare la pace che non ha avuto in vita. Mi creda, sono sincero e le porgo le mie sentite condoglianze.
Ma veniamo al punto, o meglio al punctum dolens.
Non le scrivo per discutere sull’ammissibilità morale dell’eutanasia o per convincerla della grande offesa all’essere umano, alla vita e a Dio che essa implica. Su questo sono state scritte milioni di parole in questi novanta giorni, ed aggiungerne altre sarebbe a questo punto superfluo.
No, le scrivo per farle rispettosamente notare una piccola gaffe nella quale lei, suo malgrado, è incorsa nel partecipare alla conferenza stampa organizzata dai radicali il 22 dicembre, alla quale ha partecipato anche sua cognata Mina, per rendere nota a tutti, fra l’altro, la sua sostanziale volontà di scendere nell'arena politica per continuare la battaglia del defunto marito. Essendo stati trasmessi da Sky alcuni frammenti della conferenza stampa, ho potuto notare la sua preoccupazione nel dover riferire a sua madre, a suo dire cattolicissima, e di questo non ho motivo alcuno di dubitare, il triste fatto che al proprio figlio Piergiorgio non sono state concesse le esequie ecclesiastiche causa della sua nota e più volte affermata volontà di ricorrere all’eutanasia.
La sua gaffe non sta nel fatto che lei pretende di poter piegare un’intera religione ed una istituzione plurimillenaria come la Chiesa Cattolica alla sua pur rispettabilissima volontà. Comprendo che l’imperante individualismo faccia credere ad ognuno di potersi definire cattolico, magari adulto, per la libera scelta ed altre simili amenità, pur basando la propria vita su princìpi tutt’altro che cattolici. Pretendere allo stesso tempo un’assoluta sottomissione della Chiesa ai propri capricci mi sembra però eccessivo.
Non sta nemmeno, la sua gaffe, nella evidente mancanza di coerenza (che sarebbe quel desueto principio secondo cui, in soldoni, non si dovrebbe agire, altri direbbero razzolare, diversamente da come si predica) che implica il volere i funerali cristiani dopo aver lottato per mesi, o comunque condiviso una lotta, che è la stessa cosa, per ottenere una legge che introduca in Italia l’eutanasia o una pronuncia giurisprudenziale che a tale legge apra la strada.
La sua piccola gaffe, signora, forse sfuggita ai più, sta nell’essersi lamentata di quei funerali negati mentre dietro le sue spalle, nelle immagini trasmesse da Sky, campeggiava un logo all’interno del quale era riportata la scritta “No Taliban, No Vatican. Anticlericale.net”. Un paragone a dir poco offensivo per chi, come appunto il Santo Padre, non passa il proprio tempo a sgozzare e decapitare degli innocenti o a tagliare mani e piedi a chi ruba qualcosa per fame.
Lei però era lì, e dal quel pulpito caratterizzato da tale ottenebrato senso del giudizio accusava la Chiesa, lì stesso paragonata agli sgozzatori, di non aver concesso i funerali al suo sfortunato fratello.
Il problema è che suo fratello, almeno a quanto risulta dai mezzi di informazione, non teneva per nulla ai funerali religiosi, dimostrando così di essere in possesso anche di una buona dose di coerenza e di consapevolezza che ciò per cui si era battuto per così tanto tempo era in aperto contrasto con i principi religiosi che stanno a fondamento della dottrina della Chiesa.
Certo c’è sempre tempo per pentirsi e, se Piergiorgio Welby si fosse pentito, male avrebbe fatto il Vicariato di Roma a negargli i funerali. Purtroppo, suo fratello è morto senza pentirsi delle sue scelte, a quanto risulta, e quindi il problema non si è nemmeno posto.
Sono questioni di fede, e allora o si crede e contemporaneamente si accettano, facendoli propri, determinati principi religiosi, o non si ha fede, non si crede o comunque non si riconosce l’autorità morale della Chiesa e ci si comporta di conseguenza senza lamentarsi e senza accusare nessuno per non aver concesso dei funerali che non aveva senso chiedere.
Altrimenti, signora Carla, si potrebbe pensare che i funerali religiosi sono richiesti solo per evitare la presunta onta della loro mancata concessione. Allora si finirebbe per cadere nella trappola delle peggiori consuetudini sociali, che non sono valori, e dell’ipocrisia a cui queste si accompagnano. Marco Pannella ha parlato di “offesa” alla quale il Vaticano dovrebbe porre riparo. Non ha sfiorato la sua mente l’idea che l’eutanasia, e lasciamo da parte le sue mille altre strane richieste, sia un’offesa al sentire dei cattolici oltre che a quelli di numerosissimi non credenti?
Possibile che Pannella voglia sempre aver ragione e non voglia tener conto dell’opinione di milioni di individui che non la pensano come lui?
Non si capisce che ruolo dovrebbe recitare la Chiesa: da un lato si chiede ad essa di tacere e di non intromettersi nel dibattito riguardo a questioni vitali come le unioni di fatto ed i matrimoni gay, la ricerca sull’embrione e, appunto, l’eutanasia. Allo stesso tempo, ripeto, la si mette sullo stesso piano dei mozzateste islamici. Dall’altro la si accusa subito di insensibilità ed addirittura offensività, come ha confusamente fatto Marco Pannella, quando di fronte al mancato rispetto di un fondamentale principio cristiano, e cioè il rispetto della vita umana, si limita a non concedere i funerali religiosi, pur sottolineando attraverso il comunicato del Vicariato romano che “…Non vengono meno però la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti.”.
Colui che due millenni fa venne per cambiare il mondo lo fece usando le armi dell’amore, della comprensione, del perdono. Armi da usarsi però di fronte al pentimento, davanti alla volontà di cambiare in meglio. Di fronte a questo, pur non essendo un teologo, umilmente ritengo che il cattolico abbia l’obbligo del perdono. Tutto ciò non implica però che debba anche passare per stupido.
Mi perdoni per la mia mancanza di political correctness, ma assistere a questi assurdi attacchi alla propria religione alla lunga stanca, soprattutto quando, lo ribadisco a furia di sembrare prolisso, è una religione a difesa della sacralità e quindi della dignità della vita umana, del primato della famiglia, della concordia fra gli individui ed i popoli.
Quindi, tornando alla domanda che si è posta in conferenza stampa, a mio parere: o spiegherà a sua madre che lei è andata a protestare per il funerale religioso negato a suo fratello insieme ad un gruppetto di personaggi noti per le loro battaglie pro-eutanasia e per giunta dotati di un personalissimo e discutibile senso del pudore, visto che mettono sullo stesso piano il parroco della chiesetta di paese e il mullah Omar o il boia Al Zarqawi, ed allora la sua saggia e cattolica madre saprà ben rimproverarla per la sua “piccola” disattenzione intuendo subito le ragioni del rifiuto, oppure decide per il rispetto di quella parolina di cui sopra, coerenza appunto, magari prendendo esempio proprio dalla tanto bistrattata Chiesa, ed allora ben presto, glielo garantisco, troverà da sé la risposta alle sue domande.


giovedì 21 dicembre 2006

Alcuni interessanti articoli pubblicati sul Corriere della Sera

Posto i links ad alcuni articoli a mio parere illuminanti su alcune distorsioni tutte italiane (anche se per quanto riguarda le distorsioni in campo religioso c'è chi sta pure peggio...).

Sulla situazione relativa alla vox catholici populi per come, e quanto, espressa sui mezzi d'informazione si dimostra interessante l'articolo del sempre intelligente ed acuto Ernesto Galli Della Loggia.

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2006/12_Dicembre/20/gallidellaloggia.shtml

Sull'atteggiamento suicida dei politici e degli amministratori italiani nei confronti della pervasività della cultura islamica e della sua difficoltà (o impossibilità... Francia docet?) ad adattarsi alle nostre leggi e ad i nostri costumi ha scritto un articolo, la scorsa settimana, Magdi Allam.

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/12_Dicembre/11/moschee.shtml

Infine, sulla proverbiale capacità dei comunisti di accettare, magari chiedendo scusa sull'esempio di Giovanni Paolo II, gli errori commessi, e sulla loro disponibilità nell'accettare che se ne discuta pubblicamente o se ne scriva qualche libro, consiglio di leggere quanto ha scritto qualche giorno fa Giampaolo Pansa. Qui ne riporto una sola illuminante frase, una domanda che si pone e ci pone il giornalista (certo non sospettabile di smanie destrorse...): «Che Paese siamo mai diventati, dove è diventato pericoloso presentare un libro?».

http://archivio.corriere.it/archiveDocumentServlet.jsp?url=/documenti_globnet/corsera/2006/12/co_9_061216078.xml

mercoledì 20 dicembre 2006

Comunicato di Scienza&Vita sulle unioni di fatto (12/12/06)

Riporto integralmente il testo del comunicato stampa di Scienza&Vita del 12 c.m. sulla inaccettabilità della distinzione fra uomo e donna come dato culturale e non naturale.
Chi volesse la copia in .pdf la può trovare qui.

Associazione Scienza & Vita
Via Lungotevere dei Vallati, 10 ‐ 00186 Roma ‐ Tel.: 06 68192554
COMUNICATO STAMPA N. 25 DEL 12/12/2006

COPPIE DI FATTO, TUTELA MINA BASI ANTROPOLOGICHE DELLA SOCIETA’
LA DIFFERENZA TRA DONNE E UOMINI NON E’ UN DATO CULTURALE

La legittimazione delle coppie di fatto attraverso un provvedimento legislativo non costituisce
semplicemente – come sostengono in molti – un allargamento dei diritti individuali, ma è piuttosto una vera e propria decostruzione delle basi antropologiche della nostra società. Con un tale riconoscimento, di fatto, si nega che la differenza sessuale sia la differenza primaria, sulla quale si è costituita non solo lanostra cultura, ma tutte le altre. Nel caso, poi, di riconoscimento dell'unione tra persone dello stesso sesso l'Associazione Scienza & Vita vuole ricordare che la differenza fra donne e uomini è fondata su basi naturali scientificamente provate e non, come sostiene la teoria del gender sottesa a tali ipotesi, solo su una costruzione culturale. Non riconoscere una realtà scientificamente provata ed evidente costituisce quindi, ai nostri occhi, una pericolosa manipolazione della verità. Ed è proprio a partire da questi presupposti scientifici che non vi sono gli estremi per un riconoscimento legale dell’unione tra persone dello stesso sesso e per un’equiparazione della stessa al matrimonio.
La difesa di questo imprescindibile fondamento antropologico non significa in alcun modo sostenere opinioni omofobe o negare il riconoscimento dei diritti che ciascuno ha in quanto persona e in quanto cittadino.

martedì 19 dicembre 2006

Interessante intervento pubblicato il 16/12 da "Il Giornale"

"Laici e cattolici uniti contro lo "zapaterismo"", probabile tomba della civiltà occidentale, aggiungo io, se non lo si combatte per tempo e con la dovuta profusione d'impegno.
Questo è il titolo dell'intervento pubblicato dal giornale e che troverete sul sito di Forza Italia.
Bisogna comprendere che determinate idee sono pericolose, e potenzialmente letali a lungo andare, se si dovessero affermare definitivamente, non solo in un'ottica cattolica ma in un'ottica più genericamente civile.
Leggetelo a questo link.

Sul timore di definirsi conservatori - Il grande inganno della sinistra

Se c’è una cosa che spicca con particolare chiarezza dal dibattito politico per come si svolge in Italia, è la ritrosia di troppi esponenti di centrodestra nel definirsi conservatori. Ad un primo sguardo, o meglio ad uno sguardo rivolto al problema con ingenuità, questo sembra molto strano. Perché persone come i nostri attuali politici dovrebbero aver paura di definirsi per quello che, spesso, sono?
Perché, quando si vuole evocare poteri più o meno occulti che vorrebbero mantenere inalterato lo status quo in un determinato ambito, si parla genericamente di “forze conservatrici”?
Perché, è presto detto, le varie culture di sinistra e specialmente quella della sinistra massimalista e della componente radical-chic, purtroppo dominanti in sede accademica oltre che a livello mediatico, sono riuscite a far identificare all’italiano medio l’idea di conservazione con quella di una presunta immobilità sociale e con la repressione sistematica di ogni impulso di innovazione, più o meno libertaria, a livello individuale e collettivo. Con la cristallizzazione, quindi, delle differenze socio-economiche per cui il potere e la ricchezza dovrebbero rimanere, secondo i “conservatori” come volutamente malintesi dalla sinistra, sempre patrimonio delle stesse classi (inteso, questo termine, nel significato che può avere oggi…) e, anche localmente, delle stesse famiglie e delle stesse persone. Ed inoltre a far identificare, nel comune sentire di molti italiani, l’idea di conservazione con l’innalzamento di barricate volte a contrastare chiunque esprima un’idea di vita e di libertà diversa da quella che il conservatore fa propria, a fronte della presunta apertura mentale e culturale tipica dei progressisti, che invece, per inciso, non faticano affatto a definirsi tali. Il tipico conservatore quale stigmatizzato da questa pseudo-cultura utilizzerebbe quindi tutto, valori compresi, in funzione strumentale al mantenimento del potere economico e politico, relegando chi non fa parte della propria aggregazione settaria al triste ruolo di sfruttato, diciamo pure di moderno suddito.
Peggio: la sinistra è riuscita nel tempo a legare nell’immaginario dell’italiano la parola conservatore, riferita questa volta anche all’uomo comune che si considera tale, ad una figura di uomo bigotto, culturalmente e mentalmente arretrato, ridicolo nella sua volontà di mantenere intatto il rispetto verso valori decrepiti e non più sentiti come propri dalla società. E naturalmente, manco a dirlo, spesso fortemente clericale.
In tre parole, un ridicolo nostalgico.
È innegabile, e sarebbe stupido negarlo, come fino ad oggi l’operazione pseudo-culturale operata a livello di idem sentire della collettività dalla sinistra, sia riuscita splendidamente bene, a tal punto che i conservatori stessi si definiscono raramente (1) con questo termine, fino a poco tempo fa addirittura desueto nel gergo dei politici di destra. Una precisazione: l’aggettivo “pseudo-culturale” l’operazione in questione lo merita pienamente, perché non è cultura, ma è al contrario falsa cultura, o mistificazione che dir si voglia, spacciare il non vero per vero, o dipingere una realtà diversa da quella concretamente esistente. Attenzione però: individuando l’italiano medio quale vittima di una mistificazione non intendo, come invece fa la presunta (prima di tutti da sé stessa) élite culturale di sinistra, considerarlo come un povero sottoculturato che bisogna educare e portare per mano alla scoperta della “Verità Progressista Rivelata”. Questo è un vecchio ma mai abbandonato convincimento progressista, l’italiano però non è questo, e lo ha spesso dimostrato in barba alla cocciutaggine della sinistra nel considerarlo tale. La realtà è che si è spontaneamente quanto incolpevolmente convinto della bontà delle argomentazioni dirette a dimostrare la coincidenza del conservatore con l’immagine che la sinistra di esso ha voluto dipingere (2).
Compito di una forza politica di centrodestra, che voglia realmente cambiare in meglio il nostro Paese, è convincere gli italiani che esiste un’altra verità che è più attinente ai fatti per quelli che essi sono in concreto ma che fino ad oggi ha avuto meno voce, a causa del già ricordato predominio culturale della sinistra, tale però, si badi bene, solo in termini puramente quantitativi. E cioè convincerli che oggi conservatore può dirsi anche chiunque voglia mantenere vivi e vegeti i valori storicamente fondanti la civiltà europea, e quindi quella italiana, perché ne riconosce la grande valenza e riconosce allo stesso tempo come innegabile il grande sviluppo economico, culturale e sociale che essi hanno permesso alle nazioni europee. Allo stesso tempo questa forza politica dovrebbe rendere chiaro agli italiani, e soprattutto ai meno abbienti e ai meno favoriti socialmente, che essere per la conservazione e la difesa di determinati valori ben si accompagna, e direi, anzi, naturalmente si accompagna alla garanzia di un reale liberismo in economia, anche se corretto in funzione della realtà sociale, alla creazione di migliori condizioni di crescita culturale e professionale per tutti, per giungere ad una forma di società in cui nessuno si senta frustrato a causa del ruolo che svolge. Perché in una società sana ogni ruolo che sia rispettoso della integrità morale e fisica e del benessere altrui è degno di essere altamente considerato e quindi riconosciuto utile alla crescita comune. Bisogna dimostrare di essere per la meritocrazia ma senza farne una religione, perché il merito spesso non è solo frutto della volontà più o meno forte e benigna di ognuno, ma è spesso il risultato concreto di situazioni di maggior favore economico e/o sociale. Con un gioco di parole di cui chiedo scusa in anticipo, direi che è meritorio essere per la meritocrazia, ma nella consapevolezza che il merito è spesso determinato in concreto anche da elementi esterni rispetto alla buona volontà e al duro lavoro del singolo.
Questo ben sapendo che l’uomo spesso vuole più di quanto gli spetti.
Attuare quanto sopra è terribilmente difficile e complicato, nessuno può negarlo. Creare una società e un sistema che pur nel riconoscere il merito del singolo, come regola generale, di quello stesso singolo sappia allo stesso tempo valutare con umanità e cristiana (3) pietà anche le mancanze è di certo un obiettivo molto ambizioso. Eppure, per quanto titanica l’impresa possa sembrare, tentarla dovrebbe essere un punto d’onore per ogni uomo che si consideri civile e che senta il bene della società come imperativo morale.
Ancora, una forza autenticamente popolare dovrebbe dimostrare di avere un concetto liberale dell’economia quale mezzo indispensabile al fine del conseguimento del benessere sociale, ma rifiutando allo stesso tempo una visione economizzante dell’essere umano e dei rapporti sociali. Profitto quale mezzo per una società benestante e quindi più serena, ma assolutamente non come valore al quale improntare la propria esistenza. Risparmio come mezzo per un’esistenza libera e dignitosa, ed una vecchiaia serena e con meno preoccupazioni possibile, non come accumulazione insensata e volta solo al gusto di sapersi più ricchi di altri.
Il (liberal)conservatore, così come inteso nelle sue varie versioni, dalla classica alle moderne neo-con e/o teo-con statunitensi, i "liberal assaliti dalla realtà" alla Kristol per intenderci, deve sempre porre a base del suo agire un sistema omogeneo di valori che è ormai riduttivo ed intellettualmente limitante ridurre ai soli, seppur imprescindibili, cardini: Dio, Patria, Famiglia. Aggiungerei ad esempio Solidarietà, Umanità, Fratellanza, Onestà, Onore. E non mi si venga a dire che tutti questi valori sono sempre presenti nelle varie “ways of thinking” conservatrici, perché chiunque abbia studiato con attenzione la materia non può non aver notato come traspaia dalle parole e dai concetti una certa diffidenza verso il prossimo ed in particolare verso lo straniero, specialmente se immigrato. Questo non è compatibile con una visione cristiana e men che mai cattolica della vita, per quanto possa nei singoli casi essere ampiamente giustificato, a meno di non voler asservire e quindi strumentalizzare i valori cristiani nei confronti di categorie ad essi gerarchicamente inferiori.
Conservatori di determinati valori quindi, non certo dello status quo sociale. In questo senso, ritengo che la grande maggioranza degli italiani possa a ragione, una volta cadute le barriere culturali erette da certa sinistra, dirsi orgogliosamente conservatrice.
Seppur non esaustivamente, penso che, fra le tante che sarebbero adatte allo scopo, valga a descrivere il pensiero conservatore una bellissima frase di Antonio Aparisi y Guijarro scrittore e politico spagnolo del diciannovesimo secolo: "Vengo da molto lontano, ma vado molto avanti. Voglio conservare i princìpi immortali dei nostri padri, il fuoco sacro della società. Ricevo l’eredità dei nostri padri con beneficio di inventario; il buono è mio, il male lo scarto...”.
L’augurio è che il futuro partito unico, che potrebbe nascere dall’aggregazione delle forze oggi componenti il polo di centrodestra, possa con orgoglio definirsi conservatore e, senza farne elemento di esclusione, cristiano. I presupposti socio-culturali oggi ci sono e finalmente anche in Italia sembra maturata, da più parti e non solo in ambito politico, una visione delle cose riconducibile sempre più spesso, pur con gli ovvi distinguo da caso a caso, alla cultura conservatrice.
In questo senso, e di fronte alla chiara esistenza di un ancora malfermo neoconservatorismo italiano, che vedo come occasione storica per portare il Paese verso una nuova politica meno intrisa di political correctness nei confronti di determinati problemi/tabù (4) e con più elementi di concretezza tipicamente conservatrice, ritengo un errore la presa di posizione del pur intelligente e validissimo Casini, anche se giustificata da motivazioni di non poco conto relative ai rapporti interni alla coalizione di centrodestra.
Presto preparerò una breve esemplificazione di realtà culturali conservatrici, con esempi riguardanti singole individualità e realtà associative presenti nel variegato mondo del Web.


(1) Per un esempio in senso contrario all’atteggiamento tenuto dai più si legga il libro di Alfredo Mantovano "Ritorno all'Occidente. Bloc-notes di un conservatore", 2004, Editore Spirali Edizioni.
(2) Naturalmente le ragioni dell'attuale ritrosia a definirsi conservatori sono anche altre e affondano le loro radici in tempi precedenti il predominio culturale sinistrorso, ma trattarne qui, o meglio adesso, esulerebbe da quella che dovrebbe essere la dimensione tipo di un post, e confliggerebbe seriamente con i miei progetti serali... Prometto in futuro di trattarne.
(3) Si può ancora scrivere questo termine senza venire additati come reazionari e antiliberali, chissà poi perchè, dal laicista di turno?
(4) Nei confronti di singoli temi, si badi, non certo nei confronti dei politici fra loro. Il dibattito politico inteso come contraddittorio, per così dire, fra gli esponenti dei partiti, non è certo politically correct...

giovedì 14 dicembre 2006

Sì al liberismo, ma a piccole dosi...

Come riportato nell'intestazione, questo blog vorrebbe entrare in sintonia sopratutto con gli internettiani che si ritengono liberalconservatori. Quindi anche liberisti in economia. Bisogna però porre dei distinguo. Il problema del liberismo elevato a sistema, a parere di chi scrive, è che se non viene limitato da regole che tengano conto che nel mondo reale, al di là delle astrazioni accademiche e libresche, non tutti hanno le stesse capacità di produrre reddito, può trasformarsi in una teoria economica odiosamente discriminante. Quindi vi è la necessità dell'intervento dello Stato, che attraverso norme dirette ad attenuare le conseguenze economiche delle differenze in termini di capacità imprenditoriali, commerciali ed in generale di produrre un reddito più o meno alto. Per impedire derive ultraliberiste, dicevamo, vanno poste delle regole. Queste però, pur dovendo teoricamente essere frutto di un'analisi approfondita delle singole realtà socio-economiche da regolare, finiranno sempre col rifarsi ad una ideologia o comunque, nel migliore dei casi, ad essere frutto della mediazione fra più ideologie. E si sa che purtroppo le ideologie raramente implicano in chi le propaganda una spassionata analisi socio-economica... O meglio: chi sviluppa la teoria è sicuramente partito da un'analisi di tal fatta, per quanto anch'egli umanamente in qualche modo influenzato da una o più teorie preesistenti, ma chi di questo nuovo pensiero si troverà a condividere le linee portanti spesso ne diverrà strenuo difensore. Sarà portato a realizzare la teoria nei fatti applicandola alla realtà, e questo lo potrà fare solo attraverso la sua partecipazione allo scontro politico facendo della ipotetica teoria una sua bandiera, un'elemento di sua identificazione e distinzione. Si troverà ad essere, quindi, ideologizzato. Questo perchè come tutti sappiamo la distanza fra teoria, ideologia e politica è molto breve. Di questo dovrebbe prendere atto chiunque si trovi a dover disegnare un complesso normativo che abbia il fine di regolare i rapporti socio-economici all'interno di una data comunità e voglia farlo con freddezza e neutralità rispetto alle varie teorie/ideologie, sulla base della realtà economica e sociale della comunità stessa, e questo pur confrontandosi con i fautori delle diverse fazioni.
Noi riteniamo quindi che vista la diversa capacità di produrre reddito o altri beni materiali insita naturalmente nella genetica della razza umana sotto forma di diversità fisiche ed intellettive fra i singoli individui, non si possa assolutamente, in un'ottica cristiana, lasciare alla selvaggia selezione del mercato la determinazione delle condizioni di vita dei membri della comunità statale. Se una nazione è, come in effetti è, una collettività che condivide dei principi, dei valori, una storia e quindi comuni radici culturali, questo deve necessariamente portare alla solidarietà. Se poi questa stessa collettività condivide nella sua larga maggioranza l'appartenenza ad una stessa fede, nella fattispecie quella cristiana e cattolica in particolare, con tutto ciò che questo comporta, la solidarietà diventa un dovere. Un'imperativo morale.
Quindi sì al liberismo, ma con moderazione e a piccole dosi...

Bell'articolo di Introvigne

Posto il link ad un articolo illuminante (per chi crede alle tesi dell'Unione) riguardo ai PACS.

http://www.cesnur.org/2006/mi_12_13.htm

In seguito esporrò il mio pensiero in relazione a questo che promette di essere il tormentone invernale che il governo Prodi propinerà agli italiani.

mercoledì 13 dicembre 2006

Dimenticavo...

Di chiedere scusa per non esser riuscito a rispettare il mio proposito di brevità, relativamente all'introduzione.... Rischiavo però di non risultare esaustivo riguardo ai fini ed ai temi del blog.
A domani.

Introduzione a Terzo Millennio

Ho sempre odiato le introduzioni. Non so perché, ma mi riesce terribilmente difficile leggerle fino in fondo. Forse perché quando il tema trattato da un testo mi interessa non vedo l’ora di entrarne nel vivo, o forse solo perché le prime introduzioni che mi è capitato di leggere erano come libri nei libri, e devo ammettere che la prolissità non è fra le cose che preferisco in un autore.Per non smentirmi clamorosamente, diventando subito prolisso e confermando l’italianissima regola senza tempo (ma soltanto italiana...?) per cui non costituisce difetto per sé stessi fare ciò che si rimprovera agli altri, andrò subito al punto.

Il nome del blog è temporaneo e sarà probabilmente cambiato, ma il blog è e resterà legato ad un'associazione culturale che si chiama proprio Terzo Millennio.
Il nome scelto per l'associazione, Terzo Millennio, vuole ricordare la grande importanza della sfida che il millennio da poco iniziato ci pone, e porrà alle generazioni future: riuscire a mantenere viva la nostra identità culturale pur tenendo il passo del progresso tecnologico e degli sviluppi in ambito economico e, conseguentemente, facendo fronte alla ricaduta che i mutamenti a tutto questo conseguenti avranno sulla stabilità delle strutture sociali. Perché la globalizzazione economica e dell’informazione non diventi anche globalizzazione, e quindi annullamento, delle culture.
Inoltre, se qualcuno banalmente leggesse in "Terzo Millennio" un chiaro riferimento al Cristianesimo, coglierebbe nel segno: è ferma intenzione degli associati difendere, anche su queste pagine, l'innegabilità ed il grande valore storico, etico e spirituale delle radici cristiane, più precisamente giudaico-cristiane, d'Europa.
Lo scopo che mi prefiggo è di riuscire a comunicare al lettore la mia visione dei mali della società occidentale e quelle che ritengo essere le degenerazioni di un sistema che preso nella sua versione, o fase, più moderata, purtroppo, a mio parere, necessariamente limitata nel tempo, poteva seriamente rappresentare un eccellente connubio fra libertà e regole, come fra attenzione verso l’individuo e considerazione delle istanze della società nel suo complesso. Si sarebbe dovuto, però, cristallizzare un periodo, un’epoca. L’epoca in cui la crescita economica e la “turboglobalizzazione” della società, parafrasando Luttwak, non avevano ancora intaccato, almeno non irreparabilmente, le strutture di una società tradizionale che aveva di buono molto più di quanto avesse di cattivo. Cristallizzare non è però possibile, e non è comunque positivo, se è vero che la Storia è evoluzione, e purtroppo spesso anche involuzione, del pensiero umano. Si tratta allora di definire, individuare e quindi difendere i valori che, nonostante le trasformazioni sociali ed economiche che inevitabilmente si susseguiranno nel tempo, costituiranno, ed hanno storicamente costituito, un “nucleo etico” con caratteri di stabilità e continuità. Un punto di riferimento valoriale che, pur lasciando un certo spazio di manovra al meccanismo dell’interpretazione, come è naturale che sia, venga così fermamente sentito come vitale per la sopravvivenza della società da indurre l’interprete a non superare i limiti oltre i quali esso sarebbe leso nella sua essenza. Si potrebbe obiettare che questi valori già esistono e che, ad esempio, la famiglia, il rispetto della vita umana, l’appartenenza ad una cultura, ad un’etnìa, si sono dimostrati valori stabili e duraturi perché riconosciuti come fondamentali da innumerevoli generazioni di esseri umani. È facile però rispondere che raramente, forse mai, nella storia dell’Occidente questi valori sono stati minacciati dall'interno con tanta violenza, con tanta furia distruttrice, come in quest’epoca: per quanto la mia sia una convinzione opinabile, credo fermamente che ci troviamo davanti ad un attacco, specialmente contro la componente giudaico-cristiana del nostro essere europei, superiore in pericolosità a quello portato dall'Illuminismo e quindi dalla Rivoluzione Francese. Se non altro per il fatto che oggi la scienza consente, almeno in potenza, stravolgimenti allora inimmaginabili.
Non è facile definire la società occidentale per come è oggi. O meglio: le definizioni sarebbero tante e tutte più o meno rispondenti alla realtà fattuale, ma trovarne una onnicomprensiva è davvero arduo. Forse “estraniante” è la parola giusta seppur insufficiente, come del resto come tutte le soluzioni di compromesso, a descriverla. Estraniante perchè allontana l’uomo dal suo essere più vero, imponendogli un habitus che, a voler considerare il tutto con obiettività, non gli fa onore, se si considera l’uomo stesso, ogni uomo, come un essere depositario di una particolare dignità che nel Creato, con buona pace dei difensori ad oltranza dei diritti degli animali, nella sua specificazione di livello più elevato spetta solo ad esso (a proposito, per chi la pensasse diversamente... http://www.proyectogransimio.org/, ne riparleremo...).
Del sistema, intendendo con sistema il complesso delle strutture socio-economiche e le sue dinamiche interne di funzionamento, l’uomo di oggi è allo stesso tempo fruitore ed oggetto. Fruitore, nel momento in cui ogni suo desiderio sembra soddisfabile, e da soddisfare, dal sistema a prescindere da ogni considerazione che sia esterna al solo soddisfacimento del desiderio stesso. Oggetto, proprio perché nel momento in cui la fruizione del sistema, in ipso tempore con il soddisfacimento del desiderio, diviene prioritaria rispetto ad ogni considerazione di ordine morale, il soggetto viene posto dal sistema stesso nella posizione di ingranaggio che in un circolo vizioso permette, con i suoi continui desideri da soddisfare, il funzionamento del complesso meccanismo di cui sopra.Ingranaggio senz’anima né vera volontà.È evidente, ad un buon osservatore della nostra società, come entrambe le condizioni di fruitore e oggetto del sistema in cui si trova oggi l'homo occidentalis si compenetrino a vicenda e come tutto ciò sia teso a qualcosa di terribilmente misero: il profitto. Di chi, lo vedremo nel tempo...
Attenzione: per chi scrive il profitto in sé, considerato come semplice parte fra tante altre dell’esistenza umana, non è affatto misero, né miserevole. È quando questo assurge da necessità a fine ultimo dell’esistenza umana, ed informa di sé ogni aspetto del vivere, che si trasforma in un morbo contagioso, che esalta tutti i difetti dell’essere umano inculcando l’idea malsana che tutto è possibile e lecito se porta a guadagnare.Per la verità il problema non è così semplice, o almeno non si manifesta in una sola forma immediatamente analizzabile. Certamente, però, profitto e soddisfacimento dei desideri (o interessi?) sono le basi più importanti e più solide su cui il sistema si regge.La mia analisi sarà, per forza di cose, parziale e limitata ad ambiti che più mi hanno colpito o che ritengo essere di importanza maggiore rispetto ad altri, ma una cosa risulterà sempre chiara alla fine, a voler condividere il mio ragionamento: non si potrà avere la società migliore e più umana che da più parti si auspica senza una ridefinizione, entro confini meno estesi in termini di importanza, dei concetti di profitto e desiderio individuale. E si capirà come spesso quelli che io chiamo desideri siano a sproposito (ma artatamente) chiamati, dalle vestali del falso dio che governa il sistema, con il sacro nome di diritti.
Buona lettura.